mercoledì 30 dicembre 2015

Interludio

Al primo tentativo di ripartire verso casa, Danilo imballò il motore. Spense l'auto, una costosa berlina scelta con grande impegno dalla beneamata consorte, posò la testa sul volante, tendendosi in avanti contro la cintura, e respirò lentamente.

In effetti, a tutti gli effetti, si era imballato anche lui.

Riaccese prudentemente il motore, dando gas con dolcezza, e gli venne fatto di pensare che ra un vero peccato non poter fare la stessa cosa con se stesso. La puzza della nafta gli arrivò alle narici, stroncando sul nascere ogni ulteriore riflessione di stampo introspettivo, e lui partì verso casa.

Non aveva neanche tanta voglia di andarci, a casa, riflettè, stupendosene. Era strano, di solito non c'era cosa al mondo che lui desiderasse di più della relativa quiete della sua tana, dove, rincantucciato in una vecchia poltrona ormai sfondata, si appisolava pacificamente di fronte a qualche sciocchezza televisiva. Quel giorno, invece, gli sembrava di essere troppo carico, troppo pieno di vita, di energia, per poterlo fare. Aveva la netta impressione che, se si fosse rinchiuso in quella che sua moglie chiamava 'la stanza del televisore', sarebbe esploso.

Agendo sovrappensiero, accese l'autoradio e, gradualmene, quasi furtivamente, alzò il volume. La radio stava dando una canzone popolare, che aveva sentito centinaia di volte quasi suo malgrado, ma in quel momento gli sembrò bella, accattivante ed allegra. Non c'era nulla di particolare a cui pensasse, ma, quando arrivò il momento di svoltare verso casa, esitò appena per un secondo, col piede che si staccava dall'acceleratore, prima di ridare gas e andare diritto.

Il sole era basso sulla linea dell'orizzonte e Danilo canticchiava, battendo con le dita sul volante, a tempo.

I meccanismi e gli istinti della sua mente, affinati da anni al gioco minuzioso di evitargli ogni possibile seccatura, sgradevolezza o aperto confronto, semplicemente non lasciavano passare alcun pensiero ed alcuna consapevolezza. A chiederglielo, avrebbe risposto che stava solo facendo un giretto, proprio così, appena cinque minuti prima di andare a casa, per sentire un paio di canzoni in macchina, dato che a sua moglie non piaceva avere la musica accesa in casa. A chiederglielo, in ogni caso, non c'era nessuno, e quei cinque minuti diventarono dieci, e poi quindici, e i chilometri si sommarono ai chilometri, allontanandolo da casa, inavvertiti.

Arrivò fin quasi al paese vicino, prima che la suoneria del cellulare lo interrompesse, strappandolo dal suo stato di grazia con la forza di uno schiaffo in pieno viso. Gli fu sufficiente quel suono, senza che ci fosse alcun bisogno di controllare chi lo stesse chiamando, per innescare una drastica reazione. Come quando, da bambino, veniva colto, come sempre accadeva, in flagrante durante una delle sue numerose infrazioni, gli si serrò lo stomaco in una morsa e si sentì avvampare.

Allungò la mano alla cieca sul sedile del passeggero e contò mentalmente gli squilli. Tre. Ancora accettabile, stando alla sua esperienza. Prese un respiro e controllò il tono di voce, per dargli un'apparenza tranquilla e disinvolta.

"Amore mio." Di sse nel ricevitore appena ebbe accettato la chiamata. La voce dall'altra parte suonava gravida di una preoccupazione appiccicosa, avvinghiante.

"Dove sei?"

"Sono..." Danilo guardò velocemente attraverso il parabrezza ai cartelli che segnavano le uscite della statale. Già, dove diavolo era, in fin dei conti? "...a cinque minuti da casa, tesoro. Sto arrivando, nessun problema." Gli giunse all'orecchio un sospiro di sopportazione.

"È tardi." si lamentò perentoriamente sua moglie.

"Amore, sto arrivando. Calma, non c'è problema. Ho solo dovuto restare un attimino di più al lavoro. Tutto bene."

"Vieni presto?"

"Si." Confermò lui, sentendosi infastidito, come se venisse stretto troppo forte e troppo a lungo e, subito dopo, come per riflesso, vergognandosi di ciò che provava.

"Vieni subito?" Chiese ancora lei.

"Sto arrivando." Ribadì Danilo.

"Fai presto, va bene? Vieni a casa." Ripetè ancora una volta la voce di sua moglie. Poi la comunicazione si interruppe, senza lasciare tempo a repliche o saluti.

Danilo sospirò sentendosi, contemporaneamente, da un lato esasperato e dall'altro chiuso in una morsa di cupa riprovazione pr la sua stessa esasperazione. Prese il primo svincolo utile e rientrò sulla statale dopo uno stretto giro, riprendendo il senso di marcia che l'avrebbe riportato a casa.

La sensazione di leggerezza, quasi di svagato trionfo, che lo aveva avvolto durante il suo abortito tentativo di fuga mentale si era bruscamente spento durante la conversazione con la moglie e spense la musica con un gesto distratto e stizzoso, colpendo il pulsante con eccessiva violenza.

L'aria nell'abitacolo era fin troppo calda e il tessuto dei pantaloni sembrava pesargli fisicamente cotro le gambe che per l'intera giornata non avevano dato segno di avvertire la sua esistenza.

Rientrò, dunque, a casa, subì silenziosamente e di buon grado il gelo sepolcrale che lo attendeva e si sedette per trangugiare meccanicamente quello che gli venne posto di fronte per cena.

Mentre masticava, inghiottiva e di nuovo riempiva la bocca, senza sentire nè sapore nè consistenza di quel che aveva nel piatto, si ritrovò a chiedersi se la paziente incognita si fosse svegliata.

Rimproverò a se stesso di non aver lasciato detto di chiamarlo, in quel caso. Voleva essere lì, e subito, per una rapida valutazione dei danni. Non escludeva la possibilità che si rivelasse necessaria una seconda operazione, dopotutto. E poi, per la miseria, l'aveva curata lui, quella lì, era stato lui a parlarle, a passarci tutto il tempo, lui, e nessun altro, perciò era lui che doveva vedere, quando si svegliava. Era lui che doveva ringraziare, se fosse riuscita ad articolare una parola, non il primo cretino che si trovava di turno e non l'aveva neanche mai guardata in faccia.

Dopo cena, decise, avrebbe telefonato per avvisare che desiderava essere chiamato, se lei avesse dato segni di imminente risveglio. Ecco, cos'avrebbe fatto.

Dalla sua destra provenne un suono, una via di mezzo fra un sospiro e un mugolio di disapprovazione, che interruppe il corso dei suoi pensieri.

"Hai detto qualcosa, amore?" chiese a sua moglie, improvvisamente molto consapevole di sìdove fosse e con chi.

"No, Danilo, del resto, anche se l'avessi detto, a che pro? A che pro, dirti qualcosa, se tu evidentemente non hai nessuna intenzione di ascoltarmi, o parlarmi, o, per quello che vale, guardarmi in faccia. Del resto, io sono solo quella che ti stira le camicie, giusto?"

"Dai, Matilde..." Lei posò ostentatamente la forchetta sul piatto e lo allontanò da sè.

"No, no. È inutile, non voglio litigare con te. Non ti darò un pretesto per portarmi a litigare, oltretutto."

"ma, scusa..."

"No, Danilo!" Ribadì lei alzandosi da tavola. "solo Dio sa cosa mi fai sopportare, non ho intenzione di sopportare anche i tuoi sfoghi di nervi." Gli disse, facendo cadere le parole in accenti liquidi, che suggerivano un piano trattenuto dalla pura forza della dignità.

Lasciò la tavola e, con essa, l'onere di sparecchiare e rigovernare.

Poco dopo, con il ronzio monotono della lavastoviglie in funzione a fargli da sottofondo, Danilo chiamò in reparto.

venerdì 11 dicembre 2015

Alba

Come accadeva ciclicamente fin dal principio, il dolore ritornò.
Dapprima fu solo un rivolo, poi un altro, poi decine di altri, come l'aprisrsi di crepe in una diga. Sempre più velocemente,  il dolore crebbe, trasformandosi da fastidioso, a sopportabile, poi a grande, immenso, sommergendola, fino a cancellare ogni altra cosa.
Si era concentrata troppo sugli interrogativi che le giravano per la mente ed aveva dimenticato di tenersi a distanza, di restare in quella parte del grigio che le avrebbe permesso di restare distaccata da tutto questo.
Un semplice errore di distrazione, che le costò un passaggio lento e straziante attraverso l'inferno.
Tutto il suo corpo pareva urlare, cellula per cellula, un apocalittico grido indifferenziato che non le permetteva in alcun modo di comprendere l'origine di quello strazio.
Le avessero chiesto dove sentiva male, avrebbe risposto 'al corpo', in piena sincerità.
Le parve che dovesse durare per sempre, le si cancelló dalla mente ogni pensiero, compreso il ricordo, se mai l'avesse cercato, di come era sentirsi bene, tanto che per quello che sembrò un tempo infinito, perfino il tempo, oltre che lo spazio, divenne un unico blocco compatto di dolore.
Non era mai esistito niente altro, non sarebbe mai esistito niente altro, lei stessa non era niente altro.
Per quello che a lei parve il tempo di una vita intera, e che nella realtà fu lo spazio di poche ore, realizzò ciò che gli uomini illuminati vagheggiano da secoli, vivendo perfettamente nel qui ed ora.
Va detto che, per lei, avrebbe certamente preferito restare alla larga da quel tipo di illuminazione e continuare a ricordare le erbe ed i fiori che le davano, nel ricordo, un senso di dolce appagamento.

Danilo era seduto nel suo studio ed era di pessimo umore.
Aveva appena congedato un paziente venuto per una visita di controllo a lungo termine, constatando che la ripresa era ben lungi dall'essere completa e sentendosi, come al solito, colpevolizzato dalle domande incalzanti del sollecito parente che l'aveva accompagnato. Non c'era nulla da fare, nulla da sperare, e, in qualche modo, pareva che di questo incolpassero sempre lui, che non aveva sufficienti risposte, sufficienti proposte.
Conosceva collechi perfettamente in grado di gestire quel genere di situazioni e perfino girarle a proprio vantaggio, fino al punto da far cambiare quel genere di rancoroso interrogatorio in una profusione di ringraziamenti. Di norma, erano quei colleghi ad essere considerati ottimi medici, sebbene non facessero, materialmente, niente più di lui, puntualizzó mentalmente, con un'ondata di cupo rancore.
Lui, invece, non riusciva a fare altro che chiudersi in difesa, in quei casi, alzare la guardia, anche se aveva capito ormai da tempo che quel modo di fare non aveva altro effetto se non quello di rendere ancor più sospettosi e insoddisfatti i suoi interlocutori.
Aveva tentato di evitarlo, in passato, aveva perfino tentato di sbirciare ed imitare il modo di fare, la cadenza e le parole di quei suoi più fortunati conoscenti, ma senza sortire alcun risultato. Loro, con quei modi, riuscivano sempre ad apparire come volevano agli occhi della persona che avevano davanti; lui, per sua natura o sua sfortuna, non otteneva nulla di più che sembrare untuoso e mellifluo, dando al prossimo la netta sensazione di tirare a fregare.
Dominó l'impeto di nervi che minacciava di sopraffarlo a quei pensieri e, proprio in quel momento, iniziò a squillare il telefono e bussarono alla porta. La contemporaneità fu tale da lasciarlo disorientato per una frazione di secondo.
'Avanti' biascicó in direzione della porta, mentre si sfilava laboriosamente il cellulare dal taschino. Sua moglie.
Entrò uno specializzando con aria ansiosa e lui gli fece cenno di aspettare. Sua moglie non amava venire ignorata.
'Buongiorno, cara' fece in tempo a dire, imbroccando, almeno quello, il tono giusto. La voce dall'altra parte del telefono gli riassunse in breve i suoi impegni della giornata. Lo ragguaglió sulle condizioni meteorologiche e stradali e lo sottopose ad un fuoco di fila di piccole domande precise e prevedibili: a che ora sarebbe rientrato? Sarebbe stato disponibile a svolgere questa commissione? Per che ora prevedeva di portarla a termine? E per quale motivo, in nome del cielo, si ostinava a rimanere in silenzio? 'Ti stavo ascoltando, amore.' Sospirò Danilo nel ricevitore, avendo cura di voltare il viso in modo tale che il suo sbuffo non venisse percepito all'altro capo del telefono. 'Torno a casa alla solita ora. Un quarto d'ora più tardi, se vuoi che passi a ritirare le cose in tintoria. Va bene?' Sua moglie non era pienamente soddisfatta, sperava che lui avrebbe potuto far prima, ma si sarebbe accontentata.
Sentendosi leggermente stordito, un po' come un pugile dilettante dopo una ripresa con un professionista, Danilo riattaccó e dedicò la sua attenzione al giovane che aspettava, paziente, accanto alla porta.
'Scusa se ti ho fatto aspettare. Allora, qual è il problema?'
'Dottor Maletti, è per la paziente ignota, quella del trauma frontale.'
'Si, qual è il problema?' Chiese di nuovo lui, questa volta con vivo interesse.
'Ah, nessun problema, direi, solo che sta reagendo. Si lamenta.' Danilo sentì qualcosa contrarsi in un punto poco sopra lo stomaco.
'Si lamenta in che senso?'
'Dottore, si lamenta, geme.'
'Usa la voce?' L'altro lo guardò come fosse impazzito e subito lui si rese conto della profonda idiozia della sua domanda. Che altro avrebbe dovuto usare, il campanello della bicicletta?
Senza sprecare altro fiato, si alzò dalla scrivania e si diresse a lunghi passi verso l'ascensore.
Non era tanto un interesse professionale, quello che gli metteva le ali ai piedi, anche se quello era certamente presente: voleva ad ogni costo sentire la sua voce.
In tutti quei giorni che aveva passato a parlarle senza alcuna speranza di sentirsi rispondere, pure aveva in qualche modo immaginato come fosse, qiella voce, si era, in un certo qual modo, riposto da sé, mentalmente, ed ora era preso dalla smania, che non avrebbe confessato ad anima viva, di sentire con le sue orecchie se ci fosse andato o meno vicino.
Uscì dall'ascensore mentre ancora le porte si stavano aprendo e solo nel corridoio rallentó il passo, per prepararsi un copione, rammentando a se stesso che non era un turista, ma un medico, e c'erano cose che avrebbe dovuto necessariamente fare.
Se usava la voce, se davvero si lamentava, allora si poteva supporre che presto si sarebbe svegliata. Stava a lui ipotizzare in quali condizioni e preparare tutto perché il suo risveglio venisse accolto nel modo dovuto.
Arrivò alla porta della stanza.
Era vero, il silenzio incantato che tante e tante volte lo aveva portato a cercare lì il suo rifugio era spezzato da una profusione di vocali quasi incessante, pronunciate a voce bassissima, ma con decisione.
Prima di entrare, lasciò che la sua mente registrasse quella voce, che la integrasse all'immagine del corpo che giaceva in quel letto.
In tempi normali doveva essere una voce piacevole, perfino, riflettè entrando nella stanza quasi con dolcezza. Era piena, perfino in quella condiziome, una bella voce di petto, per nulla stridula o acuta, per quanto nettamente femminile. Probabilmente, quando stava bene, era una delle cose più belle di lei.
Era distesa, come ogni altra volta, nello stesso punto, nella stessa posizione, ma la voce non era il suo solo sintomo di risveglio. A tratti, uno spasmo leggero le scuoteva, senza a chiuderle, le dita delle mani e risaliva fino al collo, rovesciandoglielo appena all'indietro. In quei momenti la voce si faceva più forte, più profonda.
Non era una convulsione, nulla di male, solo il corpo che tentava di riprendersi il suo spazio.
Si avvicinò ed iniziò a lavorare su di lei, metodicamente, in silenzio, trovando segni evidenti del suo imminente ritorno al mondo degli uomini.
Mano a mano che procedeva, alla sua mente tentava di affacciarsi il ricordo di quella mattuna, quando un senso quasi superstizioso di necessità l'aveva portato a parlarle ancora una voltam a dirle il suo nome.
Danilo scacció quelle riflessioni infastidito, al modo in cui si scaccia un insetto molesto.
Non si era accorto dei molti sguardi che avevano seguito, con aria saputa, il suo procedere verso la stanza.
Le voci sussurravano nei corridoi, crescendo, come l'eco, mentre passavano di bocca in bocca.
Il dottor Maletti aveva parlato alla ragazza sconosciuta fino a farla uscire dal coma. Quando gli avevano dato notizia di un segno di ripresa, era corso, proprio corso, fino da lei, proprio lui che per smuoverlo ci voleva del bello e del buono, o per lo meno da mangiare gratis.
L'aveva tirata fuori di peso dal coma lui, le aveva pettinato i capelli tutte le mattine, era sempre lì intorno, mangiava addirittura con lei.
La conosceva di certo, anzi, non la conosceva affatto, ma se ne era innamorato, così persa com'era quando era arrivata sotto i ferri, anzi no, probabilmente aveva i suoi motivi, magari gli aveva fatto pena.
Passava di pettegolezzo in pettegolezzo ogni sua trascuratezza, vera o presunta, commessa negli ultimi cinque anni con qualsiasi altro paziente, che serviva ottimamente di contrasto per evidenziare quanto strano fosse il caso con questa qui, che non aveva neanche un nome.
Ci fu chi disse che proprio il fatto di essere una sconosciuta gli aveva toccato il cuore, chi ipotizzó il romanzo, perfino chi disse che, dopo gli ultimi casini che aveva combinato, che erano stati egregiamente esagerati appunto per creare una cornice più pittoresca agli eventi attuali, lui si fosse redento ed avesse giurato di dedicarsi anima e cuore al suo lavoro.
Come fonte informata, Antonello, l'infermiere che dal primo giorno aveva diffuso le chiacchiere sullo strano comportamento del dottore, venne fermato da tutti, quel giorno.
'Secondo me' rispondeva con aria umile ma consapevole a chiunque volesse ascoltare 'ci siamo sbagliati fin dall'inizio, su di lui. È un buono, l'ha vista tanto sola, poverina, che se l'è presa a cuore.dal primo giorno, sapete, veniva a controllare che non avesse caldo, che non avesse freddo, che fosse semlre tenuta pulita; come avrebbe fatto un fratello, anche di meglio.'
'Un fratello, o anche un amante.' Commentò più di uno, in tono acido di insinuazione. Se Antonello era presente, a quel genere di commento rispondeva sempre, scuotendo il capo, disgustato.
'E voi pensate che, fosse stata la sua amante, l'avrebbe lasciata qui così, senza chiamare nessuno dei suoi, fosse pure un suo amico? Senza neanche chiamarla per nome?'

Inconsapevole di tutto quel rumore, Danilo continuava il suo lavoro. Cercò di richiamarla p, di aiutarla a portare a termine quel lavoro che doveva essere una faticata mostruosa, da come lo vedeva affrontare alla gente, ma di cui non conosceva nulla se non ciò che aveva studiato.
Per la prima volta nella sua vita gli balenó il sospetto che ciò che era scritto sui libri non bastasse a capire quel che vedeva.
Come se non avesse studiato una sola riga nella sua vita, si affidò allora ai suoi occhi e alle sue orecchie.
Invece di agire come voleva la procedura, si fermò per un momento ed ascoltò e guardò, come avrebbe fatto con una persona qualunque, invece che con un paziente.
La donna provava evidentemente un dolore fisico molto forte, di cui lui non comprendeva la causa,  ma che era, ciò non di meno, palese. Oltre a questo, gli parve di notare che era a disagio e spaventata.
'Hey, tu, mi senti?' Parlava a voce non troppo alta, tenendole una mano sul viso, fra lo zigomo e la mandibola. 'Ascolta, lo so che senti male. Ho bisogno che mi guardi. Se mi guardi, e mi dai un qualunque segno di vedermi, ti prometto che lo faccio smettere, il male, va bene? Dai, avanti, guardami in faccia. Guardami.'
Glielo ripetè molte volte, senza mai stancarsi. Non gli parve nemmeno che fosse il caso di sentirsi stanco o annoiato, tanto era concentrato.
Lo sapeva, che lo poteva sentire, ne era certo, ora.
I suoi valori erano piuttosto buoni, i parametri anche, e lei era talmente vicina a svegliarsi che non aveva tempo di considerare quante volte stesse ripetendosi o quanto protestasse la sua schiena, a stare in quella posizione scomoda.
Una delle infermiere mise la testa oltre la sogloa e subito la ritirò, come per pudore. Alla fine, fu Antonello ad entrare e rimase in silenzio, in attesa, affascinato da ciò che vedeva.
"Oh, dai, sveglia. Guardami in faccia, su, dammi un segno che mi vedi. Dai, coraggio." Ripeteva Danilo.
Lo ripetè tanto che, quando gli occhi scuri della donna si aprirono abbastanza da mostrare la pupilla e fissarsi su di lui, non riuscì a zittirsi subito.
Non ne volevano sapere di andare a fuoco, quegli occhi, ma ci stavano provando, ed un momento di consistente silenzio calò netto come una mannaia.
"Ciao. Ciao, mi vedi? Mi fai vedere che mi vedi?" Gli occhi si richiusero, poi si aprirono di nuovo, in un volontario e preciso ammiccamento. Poi persero la presa e se ne tornarono alla deriva.
A Danilo bastava, era anche più di quanto osasse sperare.
Le tolse il dolore quanto più rapidamente possibile senza ammazzarla, poi si rivolse ad Antonello, per il semplice fatto che era lì accanto.
"È sveglia. Cioè adesso si addormenta di sicuro, ma dorme. È sveglia. Insomma, hai capito." Era visibilmente emozionato, e l'altro annuì con aria comprensiva.

Al dolore che le infuriava nel corpo si aggiunse anche una voce che chiacchierava, insistente, invadente, fastidiosa.
Era come avere la sveglia in piena funzione sul comodino alle tre di notte e durante la peggior influenza della storia.
Con tutto quel male, non aveva idea di cosa dicesse, non riusciva a cavarne fuori alcun messaggio, ma alla fine, presa da esasperazione, qualcosa si mosse, le sembrò ruotare e assestarsi e vide qualcosa sopra di lei.
Era la fonte della voce e d'improvviso tacque. Nonostante il dolore, si sentì molto sollevata dal cessare di quel suono molesto e infinitamente frustrata quando esso ricominciò poco dopo.
Provò da capo, nella speranza che funzionasse, a ripetere il movimento che l'aveva zittito e stavolta riuscì.
Perfino il doloreparve iniziare a ritirarsi lentamente.

sabato 5 dicembre 2015

Tremendamente forte

Dopo lo sforzo tremendo fatto per seguire quel discorso, scivolò nel sonno. Era un sonno pesante, netto, privo di sogni e sensazioni.
A volte, in realtà, un'immagine, un frammento di qualcosa tentava di affiorare nella sua mente, ma lei scoprì, non senza stupore, di essere in grado di scacciarli, o, per meglio dire, di evitarli, scivolandogli accanto senza farsene risucchiare, come fossero massi nel letto di un fiume.
Se avesse avuto il ricordo dell'espressione  'sonno profondo ', allora, per la prima volta, lavrebbe veramente compresa: era davvero uno sprofondare, il suo.
Perfino le sensazioni, quelle poche, frammentarie informazioni che le venivano dal suo corpo, cessavano nel momento in cui riusciva ad affondare abbastanza in basso.
Da che era riaffiorata ad una coscienza di sé, non era stata altro che un ricevitore passivo.
Non aveva modo, alcuna possibilità, quale che fosse il suo volere, di reagire alle percezioni che le arrivavano quando veniva toccata, spostata, quando sentiva caldo, freddo o dolore. Era stata in completa balia perfino della sua stessa mente che, come una lanterna magica folle, le aveva mostrato o nascosto brandelli di immagini, ricordi e parole slegati di ogni contesto, che le piombavano addosso e la lasciavano stanca, turbata o squassata, come da un vento forte, rifiutando di rispondere al suo volere.
Ora, finalmente, trovava di nuovo qualcosa su cui poteva esercitare controllo, un modo di reagire, per quanto silenzioso, nel sonno.
Lá dove la lotta si era rivelata impossibile, le era rimasta la fuga.
Doveva saperlo, un tempo, ma lo aveva dimenticato, insieme alla maggior parte di quello che aveva saputo. Ora ricordava, sapeva di nuovo, e non  avrebbe  lasciato scivolare questa informazione attraverso il setaccio che sembrava ormai costituire la sua coscienza: l'avrebbe tenuta ben salda, esercitandola con dedizione.
Non era obbligata a sentire quelle mani estranee che la spostavano come una cosa inanimata. La sua mente non poteva più costringerla a subire l'accendersi e lo spegnersi di quelli che un tempo dovevano essere stati i suoi ricordi.
Poteva solo voltarsi pigramente verso l'abisso del sonno, verso il nulla dentro se stessa, e scendere un po' di più.
Si rendeva conto, di tanto in tanto, riaffiorando appena quel tanto che le era sufficiente per comprenderlo, che dormiva ormai da molto tempo e, in quei casi, appena prima di reinabissarsi, si concedeva un intimo, profondo moto di soddisfazione, come se stesse conseguendo un importante risultato. Dormiva ancora e non pareva esistere nulla in grado di intaccare la sua capacità di farlo.

Danilo si prese la faccia fra le mani e sospirò,  i gomiti poggiati sulle cosce. Poi si rese conto di sentirsi davvero scomodo, in quella posizione, e rimedió passandosi le dita fra i capelli, mentre rialzava il busto.
Come sempre, non riusciva a non compprtarsi come se qualcuno lp stesse costantemente osservando, anche quando sapeva benissimo di essere solo.
La donna stesa nel letto di fronte a lui stava sprofondando e questo gli creava un senso di disagio che non avrebbe saputo spiegare,  neppure a se stesso.
Non c'era un'altra parola per dirlo: sprofondava, cadendo semlre di più nell'oblio, invece di riavvicinarsi per gradi alla vita. Per quale motivo gli dovesse interessare tanto, a lui che si rifugiava in quella stanza per l'unico scopo di rifuggire alla sua vita quotidiana, non lo capiva, ma, ogni volta che il fatto gli balzava all'occhio, sentiva un peso nel petto e faticava a respirare. Non poteva nemmeno ignorare quel che stava accadendo, come faceva di solito con le cose sgradevoli, semplicemente fingendo che non esistessero, perché il suo cervello pareva deciso a non schiodarsi da quell'argomento.
Si ritrovava a pensarci nei momenti più assurdi, come quella mattina, mentre si lavava i denti, e, per quanto facesse, era lì che tornava la sua mente quando non la teneva occupata col massimo zelo.
Si alzò dalla sedia e le si accostò, in un movimento svogliato che tradiva il suo desiderio di andarsene, ma senza riusciread evitare di darle ancora un'occhiata.
Le aveva parlato tanto, in quegli ultimi giorni e le parlò ancora una volta, adesso.
'Senti, tu, ragazza. Non so neanche come ti chiami. Io lo so che non mi senti, lo so che quello che sto facendo è una stronzata, però, fammi il piacere, ripensaci. Non è che abbia senso quel che ti sto dicendo. Qui non c'è nessuno che ti cerca, nessuno che si sia preso la briga di chiamare per chiedere se eri qui, e se ho capito qualcosa di come gira il mondo, mi sa che di motivi per tornare indietro non ne hai un granché. Però, se vuoi provare, a me farebbe piacere. Almeno non continuo a parlare da solo come un povero cretino, che ormai mi sembra di essere diventato scemo. Io non c'entro niente, con te, tu non sai neanche che faccia ho, però ti sto sempre attorno e, alla fine, con te mi sono sempre trovato bene. Non mi morire, dai. Fammi questa cortesia. Io adesso devo andare giù di sotto in ambulatorio a sbrigare del lavoro, ma torno per pranzo. Se nel frattempo ti va di, che ne so, smetterla di peggiorare, io per me sono contento. Va bene?'
Aveva fatto questa lunga tirata senza quasi prendere fiato, occhieggiando per lunga abitudine la situazione e trovandola, né più né meno, identica a quando stava in silenzio sulla sedia, proprio come doveva essere.
Era la prima volta che le parlava della sua condizione, ma era convinto, del tutto convinto, che non facesse alcuna differenza. Lei non lo sentiva più di quanto avrebbe potuto sentirlo il letto su cui stava sdraiata e allo stesso modo aveva reagito, com'era logico.
Per quale motivo le stesse parlando con quella voce bassa, quasi affettuosa, e perché mai le sue mani stringessero la testata ai piedi del letto fino a sbiancare le nocche, non se lo volle chiedere.
Si costrinse invece ad allentare la presa, ed era tanto forte che un mignolo scricchioló nel movimento, e a muoversi verso la porta, per scendere nel suo studio, dove altri casi, più urgenti in quanto ancora forieri di qualche speranza, aspettavano che lui svolgesse, come logico e dovuto, il suo lavoro.
Strascicava i piedi, nell'uscire, come se sentisse che mancava ancora qualcosa alle sue parole, un qualcosa di conclusivo, che doveva dire per forza.
Esitò, si diede del cretino, superò la soglia e poi tornò indietro.
La guardò, stesa nel letto bianco, dietro quella pelle che era altrettanto bianca, con quel viso che più qualunque non poteva essere e quelle braccia ogni giorno più scarne che uscivano come di cera dal lenzuolo.
Si guardò attorno come se stesse per rubare qualcosa e, attento a non parlare più forte del dovuto, disse ancora:
'Ad ogni modo, io non so come ti chiami tu, ma io mi chiamo Danilo. Danilo Maletti. Se ti dovesse servire...'
Si interruppe, lasciando morire la frase nell'aria, sentendosi un povero idiota, vittima di una cultura da telefilm. Quel senso di incompletezza che gli rendeva pesante il passo, però, si era sciolto, e trovò che ora poteva camminare normalmente, senza tornare indietro.
Per non più di un secondo rimase incerto se il suo fosse stato un gesto superstizioso o un guizzo di quell'istinto che alcuni medici sostengono di avere, poi la giornata lo trascinò via, allontanandolo da ogni pensiero.

Qualcosa turbò il suo lungo procedere fra gli strati del sonno.
Avvertiva un disagio, un fastidio al centro della mente, come un prurito, che le rendeva difficile concentrarsi sul mantenere la profondità rqggiunta.
Si innervosì e, innervosendosi, emerse ancora di un poco. Iniziava già a vedere il grigio, da lì,  ma non voleva entrarci. Nel grigio, era costretta a sentire il suo corpo, e nulla di quello che le diceva il suo corpo pareva essere buono.
Si ribellò a quell'ascesa, si agitò, ed emerse ancora, più vicina al torpido grigiore di quanto lo fosse stata da giorni. Non che sapesse distinguere i giorni ed il loro avvicendarsi.
Decise allora di calmarsi, di lasciare che tutto tornasse ad uno stato qpdi quiete, ma nemmeno quello, poteva fare. Quel fastidio che, per primo, aveva provocato la sua ascesa persisteva, impedendole di tornare dov'era.
Con lo stesso spirito di qualcuno che, turbato in un sonno profondo e ristoratore, si lancia fuori del caldo delle coperte per scoprire la causa di un rumore molesto, uno spirito quindi piuttosto tempestoso, lei si rimboccò delle ideali maniche e si tuffò nel grigiore, per verificare cosa mai fosse quel prurito mentale e vedere se le fosse possibile spegnerlo.
Quella era l'idea : farlo rapidamente cessare e, altrettanto rapidamente, riprendere il sonno interrotto.
Balzata nel grigio, si rese conto che il fastidio veniva da un suono. Il suono le era noto, ma impiegò un attimo per collegarlo ad un ricordo. La scintilla del riconoscimento quasi le sfuggì e si sentì profondamente soddisfatta quando riuscì a ricordare.
Conosceva quel suono, era la voce oboe, e non capiva perché mai le desse fastidio. Si presentava ciclicamente, dopo tutto, e non le aveva mai creato problemi.
Si concentrò per cercare di dirimere quella faccenda.
Non riusciva a capire cosa diavolo stesse dicendo, ma era senza dubbio preoccupata, quella voce. Preoccupata e qualcos'altro. Udì un timbro di gola, un'inflessione appena accennata, e una serie di immagini le esplose davanti, come un minuscolo fuoco artificiale : era triste, il concetto la investì senza darle modo di reagire.
La voce oboe era triste e preoccupata. Poveraccia. Lei poteva capirla bene. Ancora non le era chiaro, invece, per quale motivo questo fatto l'avesse costretta ad uscire dal sonno.
Sicuramente la persona a cui corrispondeva quella voce era spesso lì intorno e sicuramente le dispiaceva della sua tristezza, ma non era proprio nelle condizioni migliori per prestare il suo aiuto a chicchessia.
Innanzitutto non aveva più il minimo controllo sulla propria mente, in secondo luogo non aveva idea di che diavolo le stesse dicendo e, ultimo ma non trascurabile dettaglio, non aveva più alcun legame col proprio corpo. No, al momento non sarebbe stata in grado di fare granché.
Finalmente la voce si zittì e lei si sentì sollevata.
Avrebbe potuto tornare al suo sonno.
Stava appunto cercando di ritrovare lo stato di quiete, quando una parola, una singola parola, pronunciata come dopo un ripensamento, penetrò il grigiore e le cadde, si potrebbe dire, come in grembo.
Danilo.
Lei osservò la parola senza riuscire ad associarla ad alcunché, ma sentendo che avrebbe dovuto dirle qualcosa di speciale.
Ma perché diavolo quella parola avrebbe dovuto essere speciale, poi? Cosa poteva mai essere, un danilo?
Mentre rigirava da ogni lato quell'unica parola, vinta dalla curiosità, senza che lei se ne rendesse conto le profondità del sonno si allontnavano, lentamente, gradualmente, senza fermarsi.

giovedì 1 ottobre 2015

In cammino

OLa stanza in cui giaceva la donna incognita divenne, nei giorni che seguirono,  una tappa fissa per Danilo.
Era un buon posto in cui trovare rifugio dalla pressione quotidiana.
Silenzioso, non troppo freddo, perché la finestra si trovava esposta a sud, e, miracolosamente,  la giovane donna era rimasta l'unica occupante della stanza.
Quando si rendeva conto di essere rimasto troppo indietro con il lavoro, o di quante delle cose che si era fermamente ripromesso di fare stesse metodicamente trascurando, era lì che veniva a nascondersi.
Come per un incantesimo benigno, nessuno sembrava volerlo tallonare, una volta varcata quella porta, nessuno che lo incalzasse con lunghe liste di decisioni da prendere, di impegni a cui ottemperare o di critiche.
Le stesse persone che di norma parevano considerare una missione sacra quella di non dargli requie si affacciavano appena alla porta, lo guardavano, prendevano un'espressione di scusa e scivolavano via in silenzio.
Certo, anche lui si dava il suo bel da fare per giustificare quelle visite.
Aveva studiato una sorta di regime, chegli consentiva di passare da quelle parti almeno tre volte al giorno, prima con la scusa di farsi aggiornare sull'andamento della nottata, poi pwr controllare i progressi ripetendo all'infinito la stessa serie di semplici test di reazione, ed, infine, prima di andarsene, per controllare che tutto fosse a posto e dare direttive sulla notte incombente.
In una buona giornata, poteva spendere quasi tre ore di assoluta tranquillità a pensare ai fatti suoi, fingendosi indaffarato attorno a quel letto.
Poiché nessuno aveva ancora reclamato un legame con lei, non c'era nemmeno la noia di dover parlare con qualcuno che pretendesse risposte o lo guardasse lacrimevole torcendosi le mani.
Poteva semplicemente stare lì, accanto a quella che, ne era sempre più certo, sarebbe rimasta una inerte bambola di carne, e approfittare del silenzio e del tepore per lasciar vagare la mente lontano dalle brutture del presente.
Nei primi tempi, era certo che si sarebbe svegliata. Glielo diceva la lucentezza della pelle e dei capelli, il passo cadenzato e sicura a cui funzionava il suo corpo, anche se immerso in quel torpore profondo, come un macchinario ben tenuto.
Era sicuro anche che sarebbero presto arrivati a reclamarla.
E, invece, nessuna delle due cose era ancora accaduta. Lei restava lì,  silenziosa, immobile e senza nome, sola e avvolta nel suo silenzio, come se il frammento di soazio occupato dal suo corpo si fosse in qualche modo staccato dalla realtà circostante, andando alla deriva in un tempo ed uno spazio diversi.
Era quello che emanava, che lui avvertiva standole accanto: la sensazione di perfetto distacco dal qui ed ora.
Finì per guardarla fin troppo bene, per conoscere a memoria il suo viso ed il suo corpo fin nei tratti più fini.
Fosse stata appena più bella e, certo, priva di cicatrici e di attrezzature, si sarebbe potuta scambiare per la principessa incantata di una fiaba.
Ma i capelli di un castano comune, marroni e senza riflessi, che si avvolgevano ostinatamente in codinicci, per quanti sforzi facesse lui stesso per tenerli a posto, e i tratti banali, quasi mediocri, del suo viso, rendevano labile quell'illusione non meno delle sottilissime e lievi rughe all'angolo degli occhi.
Nello sforzo di trovare attività nuove e non impegnative che giustificassero la sua presenza in quella stanza, prese, col passare dei giorni, a spazzolarle i capelli, ad accomodarle quei pochi vestiti stinti che le mettevano addosso, e, pur di poter pranzare in un posto dove nessuno si sentisse in obbligo di fare conversazione con lui, perfino a parlarle.
La prima volta che decise di farlo si sentiva un idiota. Nonostante l'abbondanza di letteratura strappalacrime che parlava di persone che si risvegliano da uno stato di coma profondo ascoltando una voce o una musica, lui era cosciente che ciò che faceva non aveva più senso che parlare ad un ciocco di legno, o all'anta dell'armadio, per quel che valeva.
Eppure, di fronte all'ennesimo pranzo a base di tramezzini preparatogli dalla consorte, si ritrovò a mettere insieme qualche frase esitante.
Aveva notato proprio quel giorno che alcuni operai stavano preparandosi a tagliare la lunga fila di alberi che costeggiava i parcheggi, e partì da lì.
Presto, pochi giorni appena, e si ritrovò a trascurare il pasto, perfino a saltarlo, pur di parlare. Sapeva che era come parlare ad una bambola, ma il senso di sollievo che provava, nel potersi sfogare a quel modo, senza venir interrotto da suggerimenti o obiezioni o, peggio ancora, senza dover ascoltare le infinite lagne di qualcuno prima di poter risprendere il discorso, era ineguagliabile.
Così, nella stanza anonima, col lieve brusio del reparto in sottofondo e un sacchetto di cibo trafugato in grembo, Danilo parlava, parlava e parlava, a voce bassa e monotona, rivolto verso la sagoma sul letto.
Gli infermieri e i colleghi si soffermavano appena passando di fronte alla porta e si scambiavano occhiate stupite, di fronte a tanto spirito di sacrificio. Iniziavano a circolare voci, su di lui, che parlavano di quanta umanità, quanta volontà stesse impiegando per riportare indietro quella sconosciuta dal suo sonno profondo.
Tutti, nessuno escluso, lo guardavano con nuovo rispetto dopo aver sentito dalla viva voce della caposala di quando, ogni mattina, dopo il controllo si fermava a spazzolare i capelli della donna. Si vociferava perfino che lui ne conoscesse la vera identità e che fosse un suo antico amore, da tempo perduto.
La figura scialba del dottor Maletti iniziava così a rivestirsi, a sua completa insaputa, di un alone di romanticismo e di bontà.

Nei sogni, era in un luogo pieno di persone. Almeno erano molte persone, rispetto alla totale assenza di chiunque che c'era nel grigio.
Lei conosceva quelle persone, nel sogno, e loro conoscevano lei, ma appena il sogno finiva i loro nomi e le loro facce si perdevano, si confondevano, sbiadendo in un carosello di tratti e di suoni senza significato.
Alle volte, le restava in mente qualcosa, quando passava dall'attività frenetica del sogno allo stallo fluttuante del grigio, frammenti, per lo più, immagini che si ingigantivano alla sua coscienza con la forza di un suono assordante.
Non ci si aggrappava e non opponeva resistenza. Aveva imparato che l'unacosa era inutile e l'altra dolorosa. Li subiva, passivamente, senza avere idea di cosa farne.
Cosa ci si aspettava che lei facesse, in effetti?
Aveva sognato di fare cose, di usare mani e voce, e supponeva di possedere ancora entrambi, da qualche parte, ma il modo in cui arrivarci e utilizzarli era evaporato dalla sua memoria.
Probabilmente avrebbe ricordato, prima o poi, e se anche non fosse accaduto, aveva la sensazione di non aver perso un granché. Non era mai riuscita a fare grandi cose, con le mani e la voce, dopo tutto, le pareva.
I ricordi che le erano più chiari alla mente erano quelli dei fiori. Ricordarli le dava un senso di amichevole calore, una soddisfazione che nemmeno la ciclica cessazione del dolore riusciva a trasmetterle.
Narcisi gialli, narcisi bianchi, ibridati e maculati. Gigli selvatici, acquatici e di serra, tigrati e purpurei. Fiori di rovo, malva, violaciocca ed erica.
Ognuno di loro aveva un posto speciale dentro di lei, e anche molti altri. Ricordava non solo l'aspetto, ma la consistenza dei petali e delle foglie, l'odore, il senso di tenacia delle radici, forti in modo insospettabile sotto la terra.
Quando il dolore tornava, quando sentiva il freddo pungerle la pelle o mani sconosciute spostare il corpo che la contenva a destra e a manca come una cosa senza vita, era a loro che pensava, specialmente ai fiori del sottobosco, umili e tenaci e dall'odore pungente.
Pensare a loro, a sua volta, fece affiorare il ricordo di altre piante. Rampicanti parassiti, arbusti, infestanti, le sembrava impossibile, ogni volta che ricordava uno di loro, di averlo dimenticato, sia pure per poco.
Quasi si sentiva in colpa, come se le fosse sfuggito di mente il viso di un parente stretto, di un amico d'infanzia.
Il giorno che mise per la prima volta a fuoco la voce, ne ricordava parecchi, tutti in ordine come soldatini ben disciplinati nella sua mente, ciascuno accanto ai suoi simili.
Aveva già sentito la voce, questo era certo. Molte volte, ciclicamente.
Se mai avesse voluto scandire il tempo del grigio, cosa che non le interessava affatto fare, avrebbe potuto usare le apparizioni della voce per farlo.
Aveva un suono definito, né troppo alto né troppo basso, incredibilmente simile a quello di uno strumento che la sua mente si ostinava ad associare alla parola 'oboe'.
Lei non ricordava se quella aprola fosse vera, le capitava di rigirarsi un suono nella mente per giorni prima di capire che era solo un suono e nin una parola, ma sembrava adatta al bisogno, quindi la adottò.
La voce era 'oboe' e si presentava a cicli regolari, di solito insieme alla sensazione di essere toccata da mani calde.
Era una sensazione piacevole.
Venne un giorno in cui la voce, invece di fare il suo breve intervento ciclico, toccarla e sparire, continuò a risuonare. Andava avanti, ed avanti, ed avanti per quello che le parve un tempo lunghissimo.
Qualcosa in fondo alla sua mente fece scattare una sorta di allarme: non era legato alla apura, come quando la spostavano e la rigiravano, ma alla sensazione che avrebbe dovuto ascoltare quello che la voce diceva.
Non fu in grado di riconoscere la sensazione di interesse, troppo presa dallo sforzo di mettere a fuoco il suono.
La voce si alzava e si abbasstava, esitava, ricominciava, si srotolava come un nastro.
E finalmente alcune parole si straccarono dalla lunga serie di suoni divenendo comprensibili.
"...in fondo al piazzale, che dall'altra parte danno sulla strada, oddio, sulla ciclabile di fianco alla strada, per essere precisi. Sono di quelli che fanno tutti quei pallini, d'autunno, e qua do fioriscono fanno qjei fiorellini gialli miniscoli che puzzano come la piscia di gatto, che non piacciono neanche a me, però..."
'Tigli' pensò lei immediatamente. 'Sta parlando di tigli. Ma i fiori odorano più di camomilla e mughetto che di altro.'
"...non ci sarà più un filo d'ombra e questo è un bel guaio, d'estate, perché era l'unico pezzetto di parcheggio che si poteva usare senza che la macchina diventasse un forno crematorio, io poi ce l'ho nera, figurati, la solita fortuna, neanche da dire..."
'Tagliano i tigli?' Si chiese lei con una punta di apprensione 'ma perché? Se è una questione di apparato radicale, potrebbero potare solo quelle.'
"...al solito, mi troverò oltre a tutto il resto anche a dover spendere una fortuna in benzina per via dell'aria condizionata, figurati, altrimenti è impossibile guidare, d'estate, se è rimasta tutto il giorno al sole..."
'Vogliono tagliare i tigli e questo si preoccupa della macchina. Per gli alberi, niente? Non gli dispiace neanche un po'? Magari li vede tutti i giorni.'
Le affiorarono chiare alla mente le immagini dei tronconi di albero che sporgevano dal suolo, appena umidi della scarsa linfa autunnale, bianchi e nudi sotto il cielo, impressionanti nella crudezza della loro prosaicitá.
Le mise tristezza e, nel giro di un momento, si ritrovò stanca come se avesse corso per chilometri e chilometri.
La voce si rifece solo una serie di suoni indefiniti, poi parve allontnarsi rapidamente.
Poco dopo, ricominciava a sognare.

venerdì 18 settembre 2015

Sfarfallio

In principio era il dolore.
Il dolore era una cosa fisica, consistente, irrefrenabilmente,  una marea di gelatina fredda che la respingeva indietro, la scuoteva come il giocattolo di un cane, regolava il flusso incostante della sua coscienza.
Non ricordava di avere un corpo, non sapeva di essere qualcuno. Era solo un oggetto di dolore e poteva sfuggire solo nel grigio, dove non era più nessuno.
Se avesse ricordato, se fosse stata conscia di essere qualcuno, avrebbe cercato di staccarsi da quella cosa che la teneva legata al dolore, sarebbe fuggita nel grigio abbandonando la vita, ma in quel poco che le rimaneva di pensiero, il concetto di vita, di scelta, non era incluso così come le complesse astrazioni del prima e del dopo. Era sempre adesso.
Lentamente, come affiorando dal grigio e differenziandosi a fatica dal dolore, qualcosa di diverso emerse.
Prese coscienza che da qualche parte una superficie divideva lei dal non-lei e che quella superficie sentiva un costante senso disagevole, come se lo spazio non-lei contenesse una qualche forma di ostilità.
Era la prima cosa diversa dal dolore che fosse emersa e lei vi si aggrappó, dedicandovi un'attenzione ossessiva. Come un prurito nel fondo dei pensieri le venne la consapevolezza di aver saputo cosa fosse quel senso di ostilità e continuò a rigirarselo e ad osservarlo, fino a che, inatteso, venne il ricordo.
Freddo. Aveva freddo.
Pronunciò nella mente quella parola, ascoltandone l'aspra sonorità e, in un lampo, venne raggiunta da un'altra scintilla di sapere. Ricordava la sua voce. Quella che sentiva nella mente era la sua voce.
I lampi di luce, i ricordi che facevano luce sul suo stato di sospensione, iniziarono a susseguirsi.
La superficie che sentiva il freddo era la sua pelle. Poteva sentire freddo con la pelle, mentre il suono della sua voce veniva emesso da una bocca e percepito con le orecchie.
Ricordò di aver guardato le labbra di altre persone a volte con desiderio, a volte con la speranza che si fermassero per concederle la quiete del silenzio, altre volte ancora per indovinare la forma di una parola nel mezzo del frastuono.
Persone. Aveva conosciuto decine di persone, centinaia, forse.
E poi, di colpo, una folgorazione che l'avrebbe fatta sussultare,  se solo avesse potuto farlo.
Quello era, lei. Una persona. Non una cosa slegata, immersa nel dolore senza fine e fluttuante nel grigio informe da sempre e per sempre, ma una persona.
Si prese un attimo per considerare la vastità delle conseguenze di questa illuminazione, sentendosi infinitamente stanca.
Proprio quando il grigio più denso iniziava ad avvolgerla, la sua pelle percepí una sensazione talmente piacevole da indurla quasi a commuoversi.
Calore, un morbido calore mobile e invitante, danzava sulla superficie che prima sentiva solo un freddo ostile.
Un suono lontano ed indistinto, che il suo ricordo associó con un oggetto, a lei ignoto, chiamato fagotto, penetrò per pochi istanti la nebbia.
Poi lo sfinimento prese il sopravvento e lei si lasciò scivolare via, di nuovo.

Danilo si arrabattava, come ogni giorno, nel solito giro dei letti.
Era una parte del suo lavoro che odiava, quello spostarsi da una stanza all'altra, ascoltando parlare gli infermieri di ogni caso, confermando nella maggior parte delle circostanze niente altro che quello che loro, che conoscevano bene il lavoro che facevano, stavano già facendo. Preferiva di gran lunga il lungo, paziente, comodo lavoro di riabilitazione, che svolgeva nel suo studio e al quale poteva applicare schemi e paradigmi che gli erano ormai noti.
I casi peggiori erano i suoi, pensò con risentimento e non per la prima volta.
Se fossero stati i peggiori nel senso del peggior stato di salute, l'avrebbe anche potuto sopportare. Non aveva mai condiviso quel disagio che provavano molti dei suoi colleghi nel veder morire qualcuno di formalmente affidato alle sue cure. Erano persone danneggiate, quelle su cui lavoravano, alcune irrecuperabili fin dall'inizio, e fingere che non fosse così gli pareva più da sciocchi che da santi.
Purtroppo, i suoi erano i casi peggiori nel senso della banalità, non della gravità. Vecchi malandati bloccati da ischemie comuni, enormi obesi rantolanti cui finiva per cedere qualche snodo fondamentale del traffico di sangue nella scatola cranica, raramente qualche ragazzino che aveva la bella pensata di volare da una moto, per lo più già condannato nel momento stesso in cui impattava col suolo. Niente che potesse servirgli da stimolo, o che potesse dargli modo di dimostrare la sua bravura.
Controlló la sua lista e si spostò lentamente,  fingendo di leggere qualcosa di importante, tergiversando,  come un bambino che tenti di evitare un compito sgradevole.
Lui si impegnava nel fare correttamente il suo dovere o, per lo meno, non lo faceva peggio di tanti altri,  ma erano gli altri ad essere invitati a parlare in pubblico, gli altri a pubblicare articoli e a sentirsi complimentare da colleghi e superiori, gli altri ad essere ispirazione agli studenti.
Non aveva mai uno straccio di occasione, questo era il punto. Pensò ancora, rabbuiandosi in viso.
La voce pacata di un collega, che gli passava accanto senza degnarlo nemmeno di un saluto, lo distolse dal suo elenco mentale di ingiustizie.
Sospirò a fondo, come chi si accolli un peso sgradito, ed entrò nell'ennesima stanza.
I documenti dicevano che quella nel letto era una paziente ignota. Le era stato assegnato un codice numerico al momento dell'ingresso in pronto soccorso e le autorità erano state debitamente avvisate.
Danilo la valutó con un breve sguardo la sagoma scarna sotto il lenzuolo e i lunghi codinicci di capelli marroncini, mossi, arrotolati come code di topo. Era uno sguardo esperto, il suo, e lo portò a calcolare,  ad occhio e croce, che qualcuno si sarebbe fatto avanti per reclamarla. Era una donna giovane, quella, e senza i segni che di solito si associano a quelle persone che vivono ai margini della società. La sua pelle era luminosa, compatta e pulita e la sua magrezza di tipo atletico, niente affatto malaticcia.
L'ampio trauma che l'aveva portata in quel letto le aveva provocato una ferita sulla fronte, ma sarebbe guarita bene, lasciando poco più che un filo di cicatrice e forse, ma solo forse, una lieve depressione sul punto in cui l'osso era stato aperto, per ridurre la pressione del sangue dentro il cranio. Si, sarebbe certo arrivato qualcuno, presto, a reclamare quella vita, e quel qualcuno avrebbe ascritto a lui ogni responsabilità.
Sospirò di nuovo prima di voltarsi verso l'infermiere.
"Ancora nessun segno di ripresa? " chiese, sentendosi come il protagonista di uno sceneggiato pomeridiano a basso costo.
"Nessun miglioramento, finora, ma i tracciati sono buoni." Rispose l'altro, rispettando il copione a menadito. 'Ora manca solo che entri qualche donna cotonata e in calze di seta a domandarmi perché l'ho lasciata' riflettè Danilo storcendo la bocca per mascherare il sorriso sardonico che voleva affiorare. Tanto valeva che rispettasse il copione anche lui.
Si avvicinò alla paziente e la toccò sul braccio, dove spuntava come un germoglio alieno l'accesso venoso, simulando di mala voglia un controllo. Si spostò poi verso il capo, chinandosi per controllare i riflessi delle pupille.
Senza un motivo particolare, la sua mano indugió sulla pelle della spalla, lasciata nuda dalla frettolosa cerimonia di taglio dei vestiti in pronto soccorso.
Gli occhi della donna erano semiaperti, ciechi, le pupille strette come pugni che reagirono appena a contatto con la luce.
Non poté fare a meno di notare che una pallida fiammella di speranza si faceva strada nella routine della giornata. Ce l'avrebbe fatta sicuramente, la sconosciuta, l'incognita; i suoi occhi reagivano ancora lentamente, ma in sincrono perfetto.
Ristette per un attimo, in atteggiamento riflessivo, ancora chino su di lei.
Aveva la stessa sensazione che provava quando dimenticava di fare qualcosa, quel senso frustrante di non essere appagato come avrebbbe dovuto, e non riusciva proprio a capire da dove venisse.
Ripassó mentalmente gli impegni della giornata, le piccole azioni abituali, come il riporre le chiavi dell'auto nel cassetto e la telefonata di rito alla sua compagna, ma di lì non gli venne alcuna risposta. Eppure ne era certo, qualcosa non stava andando secondo lo schema, qualcosa era fuori posto.
Detestava quando gli succedeva a quel modo, finiva sempre per saltar fuori che aveva scordato qualcosa di fondamentale e che tutti avevano il diritto di prendersela con lui.
"Dottore? Qualcosa non va?" Chiese l'infermiere alle sue spalle. Era una cosa insolita vedere il dottor Maletti occuparsi tanto e tanto a lungo di un paziente e lui temette, per un attimo, di aver fatto qualche stupidaggine talmente grossa che perfino quell'ometto distratto ed eternamente corrucciato potesse averlo notato.
'Ecco, figurati. Quando mi serve una mano, mai un cane che se ne accorga, ma appena mi serve un attimo di silenzio tutti presenti.' Pensò Danilo, raddrizzandosi, in lieve imbarazzo. Doveva rimediare all'attenzione fuori luogo che aveva attirato, in qualche modo, non poteva semplicemente dire che si era perso a pensare ai casi suoi. Si schiarì educatamente la voce, prima di parlare, temporeggiando. Cosa poteva mai dire? Cosa avrebbe potuto giustificare,  anzi, legittimare il suo attimo di distrazione mettendolo in una luce quanto meno di normalità?
"Non hai sentito questa poveretta?" Chiese poi in tono quieto, aggrappandosi all'unica osservazione che non fosse pura invenzione  "È gelata, avrà un freddo da cane. Non possiamo metterle addosso qualcosa?" L'infermiere esitò un momento, colto in contropiede.
Davvero non se l'aspettava, una prova di compassione del genere, da lui. Iniziò ad annuire prima ancora di parlare.
"Certo, dottore. Provvedo io." Danilo annuì a sua volta, raddrizzando quel tanto di spalle di cui la natura aveva voluto dotarlo, vale a dire non molto, e scivolando quanto più velocemente possibile fuori dalla stanza.
Si sentiva come quando, da ragazzino, sfuggiva ad una interrogazione a cui non era preparato per il rotto della cuffia, abborracciando qualche scusa che, miracolosamente, veniva presa per buona.
Nella stanza l'infermiere, un ragazzo tarchiato di nome Carlo Alberto, si stava dando da fare per trovare alla ragazza senza nome una coperta in più.
Gliela stese addosso con delicatezza, coprendole le braccia nude fin dove poteva. Amava molto il suo lavoro. Si sentiva un poco in difetto, per non aver notato quanto fredda fosse la pelle di quella poveretta. Si sentiva anche in difetto verso il dottor Maletti. L'aveva sempre creduto una di quelle persone che lavorano a tirar via, un impiegato della professione medica, ed invece eccolo lì, a preoccuparsi che una che non aveva neanche un nome non dovesse patire freddo senza poterlo dire.
Carlo Alberto scosse la testa. Magari l'avevano giudicato male.

Dal profondo del sonno grigio, una meravigliosa sensazione le giunse dalla superficie della pelle. Non era la semplice cessazione del freddo, quella, era un vero e proprio piacere.
La sua mente stanca, finalmente libera dalla sensazione ostile che l'aveva pungolata, si ranicchiò nel primo, vero sonno profondo dalla notte in cui era caduta.

mercoledì 16 settembre 2015

Notte

Che ore saranno state? Forse le due, le tre del mattino.
Nonostante le ultime vestigia dell'estate ancora aleggiassero nell'aria, durante il giorno, a mostrare qui un bicipite scoperto da una manica corta e lì una pregevole mezzagamba femminile, a quell'ora faceva un freddo cane.
Eppure la ragazza, coi capelli lunghi lisciati dallo sporco di una settimana, avanzava con indosso solo jeans e maglietta, le braccia incrociate strette sul piccolo seno, ricoperte di pelle d'oca, a simbolica protezione.
Guardandola da più vicino, avresti potuto vederlo, che era bagnata, la roba che indossava. Non fradicia, no, non gocciolava a terra, ma umida di certo, dal modo in cui le si incollava addosso.
Procedeva a passo veloce verso il semaforo all'angolo,  che continuava impettito a cambiare colore per una strada deserta.
Era giallo, quando ci arrivò,  e spandeva una luce falsamente calda sul triangolo di cemento dove cadeva e, per un attimo, anche sul suo viso.
Non era giovane come sembrava da lontano, ma nemmeno vecchia come il suo girovagare randagio e la postura raccolta, difensiva, avrebbero potuto far supporre.
Pigió il bottone per il passaggio pedonale una, due, tre volte, a ripetizione, di gran fretta, come se si aspettasse di essere investita da qualcuno, ad attraversare senza il verde.
La strada, da una parte all'altra,  a perdita d'occhio,  non era altro che un nastro d'asfalto disertato dai suoi frequentatori, sia diurni, a quell'ora beatamente addormentati fra le lenzuola, che notturni, in attesa del fine settimana per apparire.
Una folata d'aria si incanaló fra i palazzi messi spalla a spalla e la andò a colpire in pieno, strappandole un brivido che era quasi un sussulto.
Aspettava ancora che il semaforo scattasse al verde, ma si vedeva bene che era in ansia a stare ferma a quel modo. Si guardava intorno e muoveva i piedi, come scalpitando. Se si fosse potuto far fretta a un palo di metallo, di sicuro l'avrebbe fatto, eppure aspettava, badando senza volere che le punte consumate delle scarpe da corsa rimanessero di qua del cordolo del marciapiede.
Si vedeva già da lì,  che era abituata ad obbedire, a seguire alla lettera le regole.
Finalmente arrivò la luce verde e lei scattò,  quasi avventandosi sulla strada, denunciando chiaramente la sua fretta, la sua voglia di andare, tanto che c'era da chiedersi come avesse fatto a trattenersi, tutto quel tempo, senza nessuno che passava.
Attraversò quasi di corsa, sicuramente a passo di marcia, e camminò ancora a lungo, sempre più raccolta su se stessa, vittima evidente del freddo, quasi ranicchiata,  con la volontà nelle gambe, che scandivano un ritmo sempre uguale e ugualmente rapido, a falcate, divorando lo spazio.
Non guardava più dove metteva i piedi, questo è chiaro.
La stanchezza, il freddo, l'angoscia che veniva fuori da tutti i suoi movimenti,  alla fine si erano presi in pagamento la sua attenzione: era questione di tempo  prima che inciampasse e fu solo un caso, un caso benevolo, a farlo succedere nella pozza di luce gialla della vetrina di un bar.
Non era aperto a quell'ora,  è chiaro, ma c'era qualcuno e tanto bastava.
La ragazza ficcó la punta della scarpa in una buca bella profonda e stramazzó in avanti, senza neanche la forza di mettere le mani a protezione del viso.
Cadde come avrebbe potuto cadere un pezzo di legno o di metallo, rigida, con la testa protesa verso il palo che segnava la fermata dell' autobus, il numero tre, che non avrebbe fatto la sua prima corsa che di lì a due ore.
Fossero passate quelle due ore, se il bar non fosse stato in ristrutturazione e il proprietario non avesse deciso di liberarsi di qualche calcinaccio mentre nessuno lo vedeva, senza doversi sorbire tutto il giro di telefonate all'azienda dei rifiuti, non sarebbe successo niente.
Lei sarebbe morta, questo è chiaro, ma non sarebbe successo niente di tutto il resto.
Invece il barista era lì e sentì il rumore, il rintocco del suo cranio che impattava contro il palo, e uscì di corsa.
Provò a chiamarla, a toccarla, avvicinandosi e allontanandosi come una scimmia dei documentari,  fino a che non gli venne in mente il cellulare che teneva nel marsupio,  dentro.
Chiamò un'ambulanza e rimase ad aspettare accanto a lei, saltellando da un piede all'altro, chinandosi ogni poco su quel corpo che, così gettato a terra, pareva ancor più piccolo e più simile ad una cosa.
L'ambulanza venne e se ne andò, portando con sé la ragazza, rapida ed efficiente, tagliando la notte col rumore delle sirene nel ripartire, trasportando il suo carico in cui ancora,  debole come una fiamma di candela, brillava la vita.
I volontari si parlavano ad alta voce, sentendosi in un telefilm, il medico stringeva le labbra e pensava al ritorno a casa che lo aspettava appena oltre il prossimo giro della lancetta dei minuti, e lei, a dispetto di ogni probabilità e di ogni ragionamento,  viveva.

Chiedo scusa

Cambio di programma.